Tecnologia e Cooperazione Sociale

CONSAPEVOLEZZA, LIBERTA’ E RESPONSABILITA’ PER UN PERCORSO DI INNOVAZIONE

[Quello che segue è il mio intervento di prolusione alla tavola rotonda, organizzata nell’ambito del DIGITALmeet 2018, che in collegamento in videoconferenza tra Padova e Perugia, ha dibattuto il tema “La persona al centro nella sfida dell’umanesimo digitale”, sulla base del lavoro svolto negli ultimi anni nella collaborazione tra Prefetture e Cooperazione Sociale. E’ stata per me l’occasione di riprendere alcuni temi su cui ho argomentato di recente, inserendoli in questa particolare chiave di lettura. Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2018 nella rivista digitale TechEconomy.]

Nel mio intervento intendo coniugare il tema dell’umanesimo digitale – al centro del DIGITALmeet di quest’anno, a me particolarmente caro, con quello della cooperazione sociale e delle nuove sfide che le realtà attive in questo campo sono chiamate ad affrontare.

Intendo proporre una riflessione sulla tecnologia e sull’uso che ne possiamo e dobbiamo fare nel contesto sociale.

Gli esperti del settore riconoscono che non è possibile fermare la digitalizzazione e che la questione in gioco è quella della sua velocità di crescita. A me non interessa tanto la velocità della trasformazione digitale, ma la direzione che questa può prendere. Nel 2010 Kevin Kelly, tra le altre cose fondatore della rivista Wired, ha scritto nel libro “Quello che vuole la tecnologia”, dove si interrogava sulla natura della stessa concepita come un organismo vivente ed autonomo rispetto all’uomo, quanto segue: “L’evoluzione delle nuove tecnologie è inevitabile, non la possiamo fermare. Ma il carattere di ciascuna di esse dipende da noi”. Egli riconosceva che all’interno di un ineludibile progresso vi sono degli spazi di libertà: l’uomo rimane responsabile del fatto che la tecnologia, evolvendo autonomamente, proceda verso il bene piuttosto che verso il male. Ad esempio, se saremo sempre più connessi, la qualità di questa connessione non è scontata, potrebbe rispettare o non rispettare la privacy, potrebbe servire ad aumentare la democrazia o il totalitarismo. Se siamo consapevoli sia della natura della tecnologia, sia del nostro ruolo, possiamo preparare meglio noi stessi e i nostri figli al futuro che verrà e direzionare l’evoluzione tecnologica per poterne trarre il massimo vantaggio.

Secondo un’altra voce, quella del filosofo Umberto Galimberti, oggi stiamo affrontando una rivoluzione. Per molti secoli l’uomo è stato al centro del mondo, della storia. Ora non più, perché è la tecnica ad essere al centro dell’universo, della nostra storia. Qui la tecnica non è “un mezzo per un fine” ma diventa “il fine stesso”. E per raggiungere questo fine, la tecnica richiede efficienza e di conseguenza rimuove ciò che è ridondante, ciò che è insolito, … in altre parole rimuove l’umanità. Secondo la tecnica “cosa fai è importante”, non ”come lo fai”.

Altri intellettuali ci avvertono che nella società sono in agonia alcuni principi fondamentali, quali il rispetto della vita, la necessità di cooperazione, il senso del limite. Soprattutto nei giovani emergono elementi di distruttività che si contrappongono al senso di comunità che molti di noi hanno sperimentato. Questo accade all’interno di quello che abbiamo visto come una inarrestabile crescita delle tecnologia digitali, che sempre più saranno percepite come elemento di accrescimento delle capacità umane. Proprio qui vedo un grande rischio di divaricazione tra uomo e macchina: da un lato la perdita di umanità generata dall’uomo verso l’uomo; dall’altro la perdita di umanità indotta dalla percezione che la tecnologia è, appunto, in grado di potenziare l’umanità fino a sostituirla.

Fatta questa premessa volta ad affermare che oggi non si può prescindere da un rapporto con la tecnologia, e che questo potrebbe non essere paritetico, non mi dilungo oltre in un ragionamento che mi porterebbe lontano, ma riparto da alcune considerazioni tratte dalla mia esperienza professionale.

Negli ultimi venti anni ho operato nel contesto open source che pone in rilievo valori quali la partecipazione, la condivisione, la collaborazione, la trasparenza, che sono essenziali in un qualsiasi percorso di innovazione. L’obiettivo non è solo mettere a disposizione il frutto del proprio ingegno in modo libero affinché questo possa crescere nel tempo, ma porre l’accento sulla libertà quale elemento di crescita. Una libertà che presuppone consapevolezza e competenza, due elementi cui oggi non si tributa il giusto valore, soprattutto da parte dei crescenti “populismi”. Gli inglesi chiamano tale pratica empowerment, che si può tradurre come conferimento di potere o, ancora meglio, come responsabilizzazione.

Nell’open source, nel tempo e in modo paradossale, si è consolidato un altro concetto: quello di organizzazione. Dico in modo paradossale, per un fenomeno che è cresciuto in modo spontaneo, dove singoli programmatori operavano connettendosi in rete in modo individuale e indipendente, con azioni anche ridondanti, in contrapposizione all’imperante rigido metodo di sviluppo basato sul comando-controllo. Ma anche nell’open source, le grandi comunità e i progetti più importanti, per affermarsi e durare nel tempo, per divenire quindi sostenibili, hanno avuto necessità di strutturarsi. Questo ci dice che l’innovazione deve essere guidata, va progettata, serve una visione che deve essere supportata da azioni concrete che consentano di attuarla.

Negli ultimi cinque anni, poi, mi sono occupato di uno dei fenomeni che oggi desta maggior interesse, ovvero del “big data” e dei processi “analitici” che consentono di estrarre valore dai dati, da cui deriva la crescita esponenziale delle applicazioni di intelligenza artificiale. Questo mi ha portato a porre l’attenzione sull’importanza dei dati nella società attuale, sul loro valore, sulle diverse opportunità, ma anche sui rischi connessi al loro utilizzo. Quando anni fa cominciava ad intravedersi il fenomeno “google”, i più attenti già diffondevano un semplice slogan che oggi manifesta tutta la sua evidenza: “se è gratis, allora il prodotto sei tu”. Questa situazione è ora sotto gli occhi di tutti cosa ed evidenzia la nostra grande vulnerabilità. Vi è sicuramente una grande opportunità data dal valore dei dati: pensiamo a cosa potrebbe accadere se riuscissimo a farcelo riconoscere (qualcuno ipotizza che l’economia di mercato sarà presto soppiantata da un’economia data-rich basata sulla capacità di utilizzare al meglio i dati che si possiedono).

Se però ci soffermiamo sui rischi, nasce la necessità di mettere in atto regole trasparenti ed etiche che consentano di preservare i diritti collettivi connessi alla proprietà e all’uso dei dati.

Come vedete, ho spesso utilizzato i termini libertà e responsabilità. Questo perché ritengo che solo uomini consapevoli, liberi e responsabili possano governare la tecnologia verso una crescita collettiva all’interno di una piena co-evoluzione uomo-macchina, che è quello che ci aspetta nel futuro. Ciò che differenzia l’uomo dalle altre specie naturali e biologiche, e soprattutto dalle macchine, è la piena consapevolezza di sé. Per conquistarla, ognuno deve affrontare un percorso che si fa sempre più difficile man mano che cresce la dinamicità e complessità della vita quotidiana.

Chi opera nel sociale, che ha ben chiari i principi ed i valori su cui si basa la propria azione, non può più ignorare questa emergenza tecnologica che può essere gestita solo con un senso etico. Per le imprese sociali, le cooperative e gli enti del terzo settore, questa può essere anche un’opportunità per collocare il proprio ruolo in un contesto innovativo e foriero di protagonismo sociale, sia per migliorare i servizi che già oggi offrono, sia per migliorare la percezione e la consapevolezza degli utenti sull’uso delle tecnologie e dei dati.

Una prima azione che la cooperazione sociale può attivare affinché le proprie attività possano maggiormente incidere il tessuto sociale è volta a creare una massa critica. Questo si può realizzare mettendo in rete associazioni ed iniziative, superando piccoli narcisismi o difficoltà organizzative, almeno per quando riguarda la condivisione di una visione comune e la progettazione delle azioni che si intendono adottare per metterla in pratica. Ci sono temi dove il campanilismo, ma anche il federalismo, non ha portato a risultati positivi. Tra questi ho sempre messo quello delle politiche per l’ innovazione e, se vogliamo fare un caso ancora più specifico, quello dell’open data. Sono sempre stato convinto che in questi campi servano politiche e indirizzi centralizzati, che favoriscano regole, linee guida ed impostazioni comuni, senza escludere contributi ricchi e diversificati ma che facilitando il loro innesto in una piattaforma comune possano alimentare la diversità in modo coerente affinché possa produrre risultati tangibili e non la semplice somma di iniziative spontanee talvolta non conciliabili tra loro.

Quello della progettazione è un tema importante e qui è opportuno collegarsi al pensiero di Luciano Floridi, un “filosofo dell’informazione” che molto ricerca nel campo dell’etica informatica, quando ci rammenta che in questa nuova era abbiamo molti ingredienti per lo sviluppo a nostra disposizione e che quindi “l’era digitale è l’era della progettazione, non della creazione”. Dice Floridi, che possiamo osservare come internet, nata da un’iniziativa di ricerca, si sia sviluppata per divenire quella che conosciamo oggi grazie ad iniziative commerciali crescendo senza regole e ora, ogni giorno, tutti sperimentiamo i problemi che ne sono derivati. Se avessimo veramente imparato la lezione, capiremmo che oggi dobbiamo affrontare la trasformazione digitale su base progettuale. Così come l’uomo, anche i sistemi digitali devono poter camminare su due gambe che si muovono assieme. Dobbiamo affiancare la gamba commerciale che sta già sviluppando l’intelligenza artificiale come ha fatto a suo tempo con internet, con una gamba politico/sociale. Questo non vuol dire porre dei limiti allo sviluppo della tecnologia, limiti che sarebbero peraltro inutili, ma affiancare allo sviluppo un governo etico di questa trasformazione.

Che fare, quindi? Possiamo partire da azioni semplici, secondo un approccio di “etica digitale dal basso”.

Ad esempio, avviare o appoggiarsi a percorsi di informazione e di inclusione che aumentino la consapevolezza dei singoli e della collettività. Un esempio può essere rappresentato dai DigiPASS recentemente avviati in Umbria.

Un’altra opportunità, e qui riprendo il concetto relativo all’importanza e al valore dei dati che divengono informazione, è quella di un utilizzo aperto, condiviso e responsabile delle soluzioni informatiche e dei dati. In molti progetti che guardano al sociale vi è sicuramente la possibilità di raccogliere, organizzare e condividere dati e poi metterli a disposizione secondo regole che rispettino i diritti dei singoli e che esaltino i valori della collettività. Qui si tratta di intraprendere un percorso di responsabilità che va agito a due livelli: sia da parte di chi realizza o gestisce tali applicazioni, sia nei confronti degli utenti finali.

In un contesto in cui la tecnologia ci offre un enorme potenziale utile a costruire il nostro futuro abbiamo il dovere di utilizzarlo bene. Lo sforzo comune è quello di costruire una cultura della responsabilità verso la tecnologia così che gli uomini del futuro non siano “tutto muscoli e poco cervello”. Credo che in questo anche la cooperazione sociale abbia un ruolo importante.

Concludo citando ancora Kelly che individua il ruolo dell’uomo nella co-evoluzione con la tecnologia come colui che gioca ad un gioco infinito. Nella mia storia personale ho sempre cercato di sostituire la abusata metafora della guerra con quella del gioco, che ritengo più ricca e significativa. Kelly fa un passo in avanti e contrappone al tradizionale gioco finito – che ha regole precise, uno o più avversari e che termina quando si vince – il gioco infinito che si gioca proprio per continuare a tenerlo vivo. In questo modo non termina mai, perché continua a giocare con le stesse regole del gioco e non ha vincitori.

Scrive Kelly:

“I giochi finiti hanno più successo perché producono azione – basti pensare alle guerre o allo sport – mentre i giochi infiniti possono essere anche noiosi. Possiamo immaginare centinaia di storie molto più eccitanti su due tizi che combattono che non su due tizi che sono in pace tra loro. Il problema di tutte le centinaia di storie eccitanti sui due tizi che combattono è che finiscono tutte allo stesso modo, ovvero con la morte di uno dei due (o di entrambi), a meno che a un certo punto cambino idea e si mettano a collaborare. Invece la storia incentrata sulla pace, anche se noiosa, non ha fine: può portare a migliaia di storie inaspettate, magari i due tizi diventano soci e mettono in piedi una nuova città o scoprono un nuovo elemento o scrivono un’opera fantastica. Creano qualcosa che diventerà la base per storie future: stanno, insomma, giocando un gioco infinito.”

“L’obiettivo è continuare a giocare: esplorare ogni modo possibile per farlo, includere tutti i giochi, tutti i possibili giocatori, ampliare la nozione di gioco, usare tutto, impadronirsi di niente, seminare in tutto l’universo giochi improbabili e, se possibile, andare oltre tutto ciò che è venuto prima. … Strada facendo generiamo più scelta, più opportunità, più connessioni, più diversità, più unità, più pensiero, più bellezza e più problemi: che si sommano a maggiori benefici, in un gioco infinito che vale la pena di giocare.

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